Altre considerazioni su Hermitage di Carmelo Bene

sabato 14 febbraio 2009



Hermitage, a mio avviso, si configura come un’assoluta contestazione di qualsiasi velleità di stile di vita. Qui tutto viene da Carmelo Bene spappolato e deriso. Tu credi di vivere? Sei solo un burattino macchinato dalle forze telluriche delle psicosi, come Bene stesso scrive nel romanzo Nostra signora dei Turchi, da significanti dissolti, che sono la forma di un delirio da cui si è parlati, che ci domina, di cui non esiste chiave interpretativa, e se esiste è da gettare, meglio scorgere questo delirante insieme di macchine desideranti inceppate, anzi talmente guaste da girare a vuoto. Così si creano dei vortici, la voce gioca sul superamento, non vuol essere voce di un personaggio, desidera diventare la melodia che sfuggendo al sentimento, al cuore, ci scaglia dritto in un nulla originario, per un’ebbrezza di moltiplicazione, non solo di annientamento. E’ il non umano, ciò che noi non sappiamo di noi stessi, il daimon che ci abita. Così il personaggio di Hermitage mormora acqua, blatera fiamma, si perde in discorsi poetici, che lungi dal mitizzare la sua condizione di esiliato, preparano il terreno per una rivelazione taciuta, sono una specie di farmaco per il male di dire e l’afasia che ne consegue. Vorrei insistere sull’antichità classica che sembra incoronare questo personaggio che pure possiede quella che Cioran chiamava tentazione d’esistere, nonostante l’evidente nichilismo sprigionato anche nelle sue posture; la classicità come condizione di uno che vive fuori dal tempo, dal mondo della produzione e vive una dolcissima e straniante esperienza estetica, nel suo eremo minacciato da voci estranee, che vengono anche da dentro, probabilmente per raggiungere, come in Nostra signora dei turchi, la condizione dell’idiota, del folle, del santo, figure che in Carmelo Bene si intersecano misteriosamente. Ambizione provocatoria questa che io penso nasca dal rifiuto di quell’intelligenza che vuole misurare tutto, capire tutto, e quindi mentire. In questo piccolo film c’è un pensiero che si auto-elide, si dà scacco matto da solo, non vuole emergere come storia, cioè confezione consolatoria ad uso dei consumatori, non di un cinema assoluto, ma delle sue forme più socialmente conformi all’idea che si ha della vita. Questa misteriosa che solo gli artisti come Carmelo Bene mostrano nella loro forma purificata dalla socialità, restituita all’unico stirneriano, che non vuole mondo ed è il gioco. Gli ideali dissolti, le speranze abiurate, un fantasma che si agita sulla scena, stanco della sua anima. E’ davvero l’uomo assurdo, di cui scrive Camus, nella sua forma più pura e interessante. E se la rivelazione che prima definivo taciuta può essere detta per me suonerebbe: ”Bisogna sottrarsi a storia, contesto, principium individuationis, e ritrovare così l’abbandono". Qui, in questo film, il mondo della produzione, del lavoro, del divertimento, è spernacchiato costantemente , in maniera segreta: “Il sessantotto è una bega da cortile, fosse pure la Rivoluzione di Ottobre “, ebbe a dire Carmelo Bene. Tutti gli eventi della storia sono disprezzati, il poeta è estraneo alla Storia, e mi colpisce il coraggio di essere antidemocratici, perché innanzitutto si è diffidato abbastanza di se stessi. E così in questo ‘67 , ecco che vien fuori Hermitage, apologo della solitudine minacciata da interiorità derisoria, misterioso bagliore di un cinema impossibile, anti storico e parodistico. Per me Hermitage è un geniale girare a vuoto, il misterioso apologo di un attore che vorrebbe essere un idiota per ritrovare una fantomatica leggerezza, che acchiappando frasi qua e là come mosche, nel miele di un abbandono che ci circonda tutti, ritrova la banalità assoluta della disfatta, come condizione umana antieroica. Né dei né maestri, né Dio e nemmeno io, “questo vecchio parruccone” lo chiamava Nietzsche, ecco l’assenza, il vuoto, felicità maniaca. Noi non siamo al mondo. C’è anche una straordinaria autodifesa del teatrante puro, insofferente al tutto che lo anima. Ma in questo c’è la terribile comicità di chi sfondato da un riso feroce non ha quasi più viso umano. Per questo si diventa maschere. In ciò la grandezza di Bene, al cui nome , io penso,nonostante tutto l’odio che egli ha saputo garantirsi in vita, l’oblio destinerà qualche sussulto imprevisto.

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