Nel nostro tempo - Eugenio Montale

domenica 12 gennaio 2014





La lettura del libro Nel nostro tempo di Eugenio Montale m’induce a una riflessione preliminare. Si tratta di un libro inevitabilmente datato, perché il tempo di cui si occupa è ormai alle nostre spalle, essendo il saggio scritto all’inizio degli anni ‘70, nel 1973 per la precisione. Datato non è un modo per diminuirlo. E’ un dato di fatto.

Lo leggo nell’edizione Rizzoli di allora, costava 2200 lire, e solo questo suggerisce l’idea che si tratti di un altro mondo, un altro tempo, non certo il nostro.

Era un tempo tra l’altro in cui funzionavano ancora (sebbene già scricchiolando)   le vecchie coordinate temporali di passato, presente, futuro, che oggi si mescolano fatalmente come fossimo oltre l’orizzonte degli eventi  in un buco nero.  Era una società che non correva dannatamente come la nostra ma aveva già cominciato a correre da decenni e Montale lo scrive: i decenni del trionfo della Tecnica, potremmo dire.

Se intendiamo allora l’espressione nostro tempo in un’accezione più larga, se con nostro tempo vogliamo dire  era della tecnica,  allora il discorso cambia. Montale parla così al cuore del nostro presente, devastato, il suo come il nostro e probabilmente come quello venturo. Si capisce già dall’incipit, straordinaria sintesi  poetica offerta a noi da un intelletto lucido,  consapevole  di ciò che è il mondo, se non altro il mondo della modernità industriale un tempo, post -  industriale oggi:

Chi osserva con un qualche distacco ciò che avviene intorno a noi dovrà ammettere che il mondo è squassato da una violenta raffica di disperazione e di oscuro, inesplicabile amore”.

Frase che non ammette repliche, definitiva, essenziale, vera  e vera per tutte le epoche, aldilà del motore tutt’altro che immobile di quella cosa chiamata Storia. E più avanti:

Si direbbe che l’uomo sia scontento di sé, incapace di dare un senso, un contenuto al fatto di essere al mondo”. Frase questa in cui si sentono echi di Nietzsche, che mi fanno pensare che Montale avesse fatto sua  la visione del filosofo tedesco, che per primo ha denunciato ” la malattia chiamata uomo”, cercando di diradare con la sua opera il fumo di pessimismo, scontento, rinuncia,  la fatale attrazione per la decadenza, la mancanza di prospettive, direzioni, orizzonti, realtà queste che caratterizzano l’umano della modernità.
Come non riconoscersi poi in questa geniale interpretazione del nostro malessere, espressa da Montale in uno stile unico, con la meravigliosa concisione di un grande poeta:

“Giornali e libri, dépliants e almanacchi, visioni accampate su una tela o su un vetro, suoni messi insieme per darci un’impressione fisica motrice, dinamica, notizie e nozioni gettate su noi a piene mani costituiscono un vociferante abracadabra che dovrebbe dire all’uomo solo: Ci siamo anche noi, non sei tanto solo.”

 Qui Montale descrive quella che è, in sintesi, la brutalità mediatica, incantesimo contro la solitudine essenziale e fondante dell’essere umano, ”vociferante abracadabra” che ci seduce e ci inebetisce.  
E così si capisce che Nel nostro tempo è anche uno straordinario documento, una testimonianza, visionaria nei contenuti, asciutta nello stile, di ciò che accaduto nel mondo, diciamo, negli ultimi 100 - 120 anni: l’avvento della massa, dell’uomo - massa. In questo Montale ha la stessa lucidità di un Leopardi, che  il fenomeno aveva  intuito nei primi decenni dell’Ottocento, quando esso era poco più di una lontana prefigurazione. Montale si occupa dell’arte, della trasformazione del suo concetto in una società sempre più meccanizzata e forse alienata, in cui l’eccessiva proliferazione delle opere  d’arte causerà assuefazione e in cui c’è il rischio che la tecnologia, liberando l’uomo dal lavoro,  crei una “un’immensa orda di uomini obbligati al divertimento per dovere sociale”  la quale orda può trasformarsi facilmente in “un semenzaio di nuovi arrabbiati e forse di nuovi delinquenti”.

In un altro passo del libro si capisce che l’uomo non ama la libertà, ne rifugge; intuizione che porta Montale molto lontano, nelle distese deserte(?) della contemporaneità in cui potrebbe tranquillamente risuonare  la voce di Cioran  o Baudrillard profondersi in una delle sue analisi.

Nel nostro tempo è un libro interessante con momenti altissimi, un libro in fondo enigmatico, a tratti veramente oscuro ma nello stesso tempo chiaro nelle sue posizioni, dove Montale  racconta il disagio dell’uomo contemporaneo, di quello che egli  giustamente definisce Homo destruens. Ed elabora un testo che colpisce per la sua attualità, per la sua lucidità stilistica, per il suo acume inevitabilmente visionario. Il vicolo cieco in cui il pensiero si è cacciato, i buchi neri che ci attraversano, sono già dentro questo saggio, in cui si narra di una cosa chiamata arte. Ho come l’impressione che soprattutto scrivendo di estetica Montale soffochi in sé dei toni apocalittici e profetici che gli sarebbero stati anche congeniali, preoccupato di donare a queste note, come le definisce lui stesso, un tono equilibrato. Si parla di futuro dell’arte. Ma c’è un futuro? Montale ha capito fondamentalmente che la massificazione porta in sé dei progressi ma annienta la vita individuale, in sintesi  rende l’arte impossibile e in ogni caso rinchiude gli artisti nel  loro mutismo  e isolamento privati.  Molto potente,  l’immagine della crosta terrestre interamente ricoperta di manufatti artistici ci racconta forse della fine dell’arte, in un mondo in cui le opere si bruciano nel momento stesso in cui sono fruite e nulla può più ambire all’eternità, concetto ormai vacuo.

Nonostante in lui la storia sia una ferita viva,  la visione di Montale è chiaramente antistoricistica;  perché la storia non si occupa d’altro che della “vita morta”.  Quella del poeta è forse una visione aristocratica, la visione di chi nella sua turris eburnea contempla sotto di sé una società senza più  centro, in cui l’uomo è in fuga ”dal tempo, dalle responsabilità e dalla storia”.  Pasolini in fondo rimproverava questo a Montale, considerando, da marxista, la sua  tendenza all’antistoricismo  come un errore.  Dunque in questo saggio sulla modernità sottili problemi di estetica si prendono tutta la scena; Montale, in equilibrio precario fra il poeta, il vate,  il saggio, l’intellettuale, affronta l’urlo di una crisi culturale, la crisi culturale che investe ormai da un secolo e più  quella cosa chiamata Occidente e che in Italia, in particolare, ha assunto negli ultimi venti - trent’anni,  connotati grotteschi e perfino spaventosi, con il dominio videocratico, con la melassa di informazioni fra il pettegolezzo e lo splatter, tutte cose che Montale sembra anticipare,   come abbiamo già visto,  con l’immagine di questo  seducente e perverso abracadabra spettacolare.  E  non c’era nemmeno internet!  Che forse ha aggiunto a questo panorama un quid  ulteriore di ipnosi, sicuramente ha aumentato il flusso di informazioni che ci inondano.

 Il saggio è breve, letto consequenzialmente affatica un po’, letto a brani, fatto a pezzi,  può essere una delizia. Il suo limite è che è un saggio strutturato come corpo unico. Fosse stato un libro di aforismi! Eccone uno,  estratto dal testo, in cui Montale fa risuonare una sorta di agghiacciante e veritiera minaccia che incombe su tutti noi, uomini  e donne della modernità:

Non auguro nulla e accetto il mio tempo. Ma vorrei solo non andasse del tutto estinta la rara sottospecie degli uomini che tengono gli occhi aperti. Nella nuova civiltà visiva sono i più minacciati.”