Una poesia di Philip Levine

martedì 23 settembre 2014





Detroit, una fabbrica abbandonata

I cancelli incatenati, la recinzione di filo spinato è lì
come un’autorità di metallo contro la neve
e questo grigio monumento al senso comune
resiste alle stagioni. Ancora carica questa recinzione
delle paure di sciopero, di protesta, di uomini uniti
e della lenta corrosione delle loro menti.

Al di là, attraverso le finestre rotte, si vede
dove le grandi presse si sono fermate fra un colpo e l’altro
e così,  sospese nell’aria, restano prese
al margine certo dell’eternità.
Le ruote di ghisa sono ferme; si contano  i raggi
che il movimento sfuocava, i montanti che l’inerzia combatteva,

e si calcola la perdita del potere umano,
lento ed esperto, la perdita di anni,
il graduale declino della dignità.
Uomini vivevano in queste fonderie, ora dopo ora;
nulla di ciò che hanno forgiato è sopravvissuto agli ingranaggi arrugginiti
che sarebbero potuti servire a macinare il loro elogio.

Da On the Edge, 1963

***
Tratta da “Poesia” numero 295- Fondazione Poesia Onlus – Crocetti editore – traduzione Claudio Bellinzona


8 commenti:

Mia Euridice ha detto...

Potrebbe adattarsi benissimo alle industrie italiane... di questi tempi.

Ettore Fobo ha detto...

@Euridice

Eh sì, l’ho scelta anche per questo.

Logos ha detto...

Una volta Ettore parliamo della poesia sociale, o meglio della domanda sul se la poesia debba avere una funzione sociale o meno. Pur ammettendo, ovviamente, che il poeta e la poesia esiste in un determinato contesto storico/sociale/Culturale, io continuo a ritenere la poesia più ontologica che sociale. Ma forse è solo per il mio latente conservatorismo...
Ciao
Alex

Ettore Fobo ha detto...


@Logos

Penso che la poesia possa avere una funzione sociale, persino una funzione di denuncia, ma un poeta che si limiti a essere unicamente megafono di queste istanze non è per me molto interessante. Ciao.

Elena ha detto...

Non so se si tratti di una specie di sintonia con quanto dite sullo scarso interesse che può suscitare una poesia puramente sociale. I versi in cui veramente mi riconosco sono quelli che descrivono lo sguardo degli oggetti sull'uomo, il modo in cui raccontano l'azione e il movimento umani per negazione, spettatori dell'inutile quanto alienante affaccendarsi dalla loro gelida fissità.

Ettore Fobo ha detto...


Leggendo il tuo commento, Elena, mi è venuto in mente lo scrittore francese Robbe Grillet, esponente del Nouveau Roman. Ha raccontato una realtà fatta di cose, di oggetti che ci scrutano. Più reali di noi, forse.

Marco Di Pasquale ha detto...

Mah, a me mon pare una poesia sociale bensì sul doloroso silenzio che intercorre tra l'uomo e ciò che egli realizza, dando forma e comprensibilità a quello che altrimenti sentirebbe estraneo, anticipo della tomba, su cui davvero nulla possiamo. Se parlare della tensione tra umanità e contesto è poesia sociale, beh, allora sì.

Ettore Fobo ha detto...

@Marco Di Pasquale

Ha qualcosa della poesia sociale, però è più sottile. La dismissione di una fabbrica comunica un senso profondo di svuotamento che diventa esistenziale e filosofico.