Bestia di gioia – Mariangela Gualtieri

venerdì 11 settembre 2015





Diceva Andrea Zanzotto che il desiderio profondo di  un poeta è quello di celebrare, di lodare. Ce lo conferma questa raccolta poetica di Mariangela Gualtieri, edita da Einaudi nel 2010, dall’eloquente titolo di Bestia di gioia. Rispetto ai precedenti Fuoco centrale e altre poesie per il teatro (2003) e Senza polvere, senza peso (2006)  Bestia di gioia sembra inaugurare una nuova stagione per la poetessa. Se già in Senza polvere, senza peso le lacerazioni del dire contemporaneo, così ben raccontate in Fuoco centrale, erano state in parte suturate con questo libro ogni ferita del vivere pare davvero rimarginata e si alza come un canto di ringraziamento. Il libro pare,  diversamente forse dagli altri,  potentemente strutturato,  intorno a un’idea di sacralità naturale.  La prima delle cinque  sezioni in cui il libro è diviso s’intitola significativamente Il naturale sconosciuto.

La poesia di Mariangela Gualtieri è attraversata da una forza epigrammatica,  sempre rinnovata da un incessante lavorio sul linguaggio. Poesia  molto lavorata pare questa, poesia in cui la scissione fra fatica creativa e ispirazione pare ricomposta in unità.

Stiamo parlando, quando si tratta di libri di Mariangela Gualtieri, di classici della poesia contemporanea. Libri che nascono con l’aura del classico sono rari ma non impossibili. Perché la poetessa nata a Cesena, con il suo linguaggio terso, la sua tensione a consacrare, pare aver superato le strettoie angosciose della “bruttissima città” che ormai è il nostro mondo. Canta ciò che rimane della realtà viva: la natura.

Ma è una natura che soffre perché troppo spesso l’animale è “infranto nel suo meccanismo d’amore ma non c’è frana nel pessimismo, poiché “qualunque dolore verrà/ puntualmente cantato”,  sopra i “rumorosissimi bar” si agita “lo spettro luminoso della gioia”. Ecco la poesia, farmaco e balsamo sulle ferite,  antidoto contro il male di vivere, che si scopre in comunione con forze primigenie, pure, immacolate.

Qui la lezione di Mariangela Gualtieri è preziosa. Anche perché ella riconosce che ogni idillio è stato spezzato e che la “città piena/ di merci schiaccia l’agnello”, che tutti si nasce “Al qui./ Al tempo. Al niente.”

Il libro è colmo di poesie stupende, come quella che inizia così  Un mio me /soffre? Chi è che scalcia sul fondo/di questo inquieto piroscafo?”  Ecco che questo essere infrapsichico si scopre “ più vivo” di tutti i sé, perciò bisogna calmarlo, farlo tacere, murarlo nel profondo in quanto” bambino più vivo”. Chissà se questa privazione d’infanzia genera il senso di una mancanza di sé, che affiora in diverse poesie.

La natura non è una cosa, è una dea che si sgola, è una dea che canta, una dea che sogna, piange, danza. Una ragnatela, il volo delle api, il petalo di un fiore, le nuvole, una foglia che cade; tutto orchestra un’armonia terrestre, manifesta e minuta.

Per effetto del lavorio sul linguaggio, della complessità poetica che emerge, Gualtieri non cade mai nello stereotipo culturale della natura forzatamente benigna. Si discosta dai cliché, per effetto di veri e propri incantesimi linguistici. L’impressione finale è di trovarsi davanti  un insieme compatto, composto di frammenti luminosi,  un mosaico affascinante dove l’idillio naturale rima con le sottigliezze di una interpretazione coerente della realtà umana.

2 commenti:

Mia Euridice ha detto...

Non la conosco affatto.

Ettore Fobo ha detto...


@Euridice

Meriterebbe di essere più celebre.